SERGIO VELO(1927-2017)

Quello che so dare a me stesso in dolore o gioia morrà con me quando non saprò superarmi più.
-Sergio Velo

Come riassumere in poche pagine la storia di mio padre?

Un mondo fatto di difficoltà, tormenti, intensità emotiva. Una ricerca, artistica e spirituale, durata una vita.

Nessuno, di fronte ad un quadro di Sergio Velo, può rimanere indifferente. Perché, al di là delle mode e delle correnti artistiche, oltre ogni evoluzione e scuola, oltre ogni concetto o interpretazione, il nostro io ancestrale è lì, che ci accomuna tutti. Lucidi messaggeri in forma e colore ci riportano, come archetipi Junghiani, alla nostra essenza più antica, che da sempre ci unisce come famiglia umana al mondo della natura ed alle meraviglie dell’universo infinito.

 

 

Matteo Velo

DICONO DI LUI
Luigi Sassi

Conoscevo da anni Sergio Velo, ma di lui ricordavo soltanto l’indagine penetrante dei suoi occhi ed il suo sorriso, tesi a chiedere comprensione più che ad esprimere gioia. Mi si offrì un giorno l’occasione di conoscerlo come pittore. La sua tavolozza offre motivi critici di vivo interesse. Di fronte ai suoi paesaggi fatiscenti e lunari, a volte espressi ondulati, altre in distese pianure, balza subito evidente l’impegno per un certo ritmo, per un colore caldo e saporoso, spesso caleidoscopico, quasi a volerci significare che la natura, i colori, li riassume tutti. Notevoli, nella sua pittura, il peso e il timbro di un atto creativo. Immediati, quindi, i suoi dipinti, non un derivato da meditazione. E se meditazione può trasparire, è solo perché è frutto di emozioni che partecipano della vita. C’è in Velo qualcosa che gli fa da guida: una forza misteriosa che egli sa intelligentemente manifestare per raccontare favole riferentesi alla natura. Forgiando il soggetto nella sua mente, l’artista dipinge per “partecipare alla vita”, come egli la chiama. Quella vita da lui sofferta, piena di illusioni, che lo hanno però spinto all’entusiasmo nel suo narrare d’artista. Solo allora, lo confessa lui stesso, ha ritrovato “fiducia e amore”. I suoi dipinti ne sono una testimonianza.

Luigi Sassi, “Sergio Velo pittore”, 1987

Carlo Segala

Quando la vernice cominciò a spandersi sulla polla di “nitro”, che era in mezzo al pavimento, Sergio Velo guardò con dispetto e preso da una sorta di improvvisa collera, scagliò altri due barattoli nel centro di quel piccolo disastro. Gli apprendisti che avevano assistito alla scena se ne scapparono subito in cortile per non subire la solita “lavata di capo” ed aspettarono con pazienza di sentir esplodere da un momento all’altro un vero e proprio temporale di ingiurie. Invece, dopo un po’, dall’interno dell’officina si levò sottile sottile, appena percettibile, quasi distratto, un fischiare tra l’allegro e il pensoso. “Deve essere un valzer” disse il Toni, “un valzer lento”. “Cretino” incalzò il compagno “è un tango, un tango argentino, di quelli di una volta”. Nell’interno della bottega, nel frattempo, il carrozziere Sergio Velo si era accucciato sui calcagni in mezzo alla polla e con una bacchettina appuntita toccava, rimestava i rigoli di vernice, allargava le macchie, sottolineava i filamenti pastosi ed imprecisi, soffiava a piene gote sugli orli sfrangiati e poi strizzava l’occhio, si rizzava in piedi, si riaccucciava, strisciava nuovamente il bacchetto e, di quando in quando, riprendeva a fischiettare quel motivo che, a miglior esame, risultò essere una mazurca campagnola degli anni Trenta. Nessuno ancora lo sapeva, ma era nato un pittore. Da quel giorno sono trascorsi alcuni anni, le tavole lucide, asettiche, tecnologicamente perfette di Sergio Velo sono opere che vengono ormai collocate nella sfera del più rifinito e del più perfetto lavoro professionale: il pubblico le desidera, le accarezza con lo sguardo, le sogna e si abbandona, come il loro autore in quel lontano primo giorno della scoperta, ad una trasognata immaginazione nella quale il reale, apparentemente negato dall’informe macchia, ritorna con la inequivocabile prepotenza della poesia, della immensa novità dell’invenzione, tanto più vera del vero.

Sergio Velo, come il suo pubblico, guarda, sorride e -dicono- fischietta ancora dentro di sé, quasi a significare, sornionamente, che la sua “divina commedia”, le sue immense vallate e le incredibili montagne, così come il mare con la grande onda, enorme sotto la luna, sono favole senza limite, aperte alla fantasia, alla contemplazione, alla scoperta. Non ci fosse, in Velo, l’entusiasmo genuino del narratore, la convinzione, quella interiore e quella che si comunica, non avremmo scritto una riga o scrivendo non avremmo neppure osato scherzare, fulminati dalla preoccupazione, tutta letteraria, di dire molto perché poco sia inteso. Invece con questa pittura è ancora possibile parlare senza finzioni, innanzi, come si è, ad un fatto nuovo, inequivocabilmente semplice. Forse sembra incredibile, oggi 1970, che abbisogni, per opere così immediatamente parlanti, una qualsiasi esegesi. Scrivere, per anche solo a commento, per quanto si voglia prescinderne, è sempre un modo di paragonare alla cultura del tempo, alla situazione: per tale ragione nel caso di Velo bisogna affermare il tema della semplicità, della narrazione, dalla nascita del naif nell’era della tecnologia. Non è possibile andare oltre l’immagine dell’incantamento, della sorpresa, della grande illuminazione di fronte al mondo della possibilità, che è poi il seme primo e forse unico dell’arte.  Perciò le montagne di Velo sono più vicine a quelle di Dante che non a quelle di Thomas Mann. Ci sono segni sicuri che questa maniera di voler essere nella narrazione sia stata capita dal pubblico, se dobbiamo registrare il successo di Velo pittore anche nella prima fase dell’operazione. Ora siamo alla mostra, alla verificazione pubblica, al rumore, a quella falsa prova della popolarità che, ripetuta innumerevoli volte, finisce per crearla, spesso indistruttibilmente, a patto che le opere, si intende, resistano all’usura del venire riproposte. Per Velo l’avventura dovrebbe risolversi in un trionfo se è vero, come sappiamo noi, fin dai suoi primi esperimenti, che ha capito a fondo le segrete leggi della più sgretolata delle repubbliche: quella della fantasia.

Carlo Segala, 1970

La “personale” che la Galleria Faunus riserva alle più recenti opere di Sergio Velo si colloca in un momento particolare della evoluzione dell’artista, nel senso che registra una sorta di bisogno, di necessità d’individuazione del reale, alla quale sembra essere spinta la fantasia, assolutamente astratta, espressionisticizzata, dell’artista. Ecco, dunque, come larve cavate dalla memoria, affiorare sulle tele del Velo serie di oggetti, strumenti architettonici (la scalinata egizia), addirittura personaggi (maggio 1972) riecheggianti le michelangelesche disposizioni dei Cristo dalla Croce.

La tecnica della quale si avvale l’artista è, rispetto alle sue precedenti esperienze, pressoché invariata; la forma, stilisticamente non definita, consente appena la lettura dei valori figurati, ma resiste la capacità poetica che, ad onta d’ogni imitazione, è sempre notevolissima e porta al pieno superamento d’ogni incertezza.

Il valore della rassegna, pertanto, deve essere indicato soprattutto nella qualità del risultato raggiunto con le singole opere sul piano della comunicazione.

Per dire in breve questa è una mostra destinata ad essere apprezzata più dal pubblico che dai critici.

Rimane un solo interrogativo; se, cioè, l’artista medesimo sia soddisfatto.

Noi preferiamo tacere, benché la risposta, suggerita in paragone dei risultati di un tempo, appaia abbastanza ovvia.

Carlo Segala, “Sergio Velo al Faunus”, 1972

Sandra Zocca

Quando lo conobbi, gentile, umano, credevo che fosse soltanto un artigiano, al suo posto di lavoro, alla periferia della città di Verona. Era invece un artista, non uno generico, non comune, non noto, non famoso ma nuovo nei temi e nella tecnica. “Le piace – mi disse una volta che lo rividi – questo?”. Risposi subito di sì e con sollievo, convinta che avevo dinnanzi un ottimo lavoro. Poi ancora altri quadri, nel suo piccolo ufficio, come il pane sfornati sempre con il colore predominante rosso papavero e giallo polline. I temi sono, più che il mondo fisico, il mondo dell’uomo, il dolore, il dramma non più tradizionalmente espresso con i volti macilenti e corpi rilassati, ma con colori. “Prima adoperavo il verde, ma quando la speranza mi ha lasciato scelsi il rosso. Ora che il mio cuore non ha più sangue, mi resta il giallo, gelosia” mi dice con un sorriso spento.

Il tema è, senza dubbio, la vita, nel groviglio delle sue passioni, espressa ora con macchie strane che sembrano sangue e che acquistano o volutamente o fortuitamente forme stupende e che sanno a volte di fiaba, a volte di mistero, di apocalittico, di caos.

“La mia vita è stata tutta un tormento”. Ed è questo tormento che ha portato Velo artigiano di periferia a sbizzarrirsi su espressioni d’arte che sono il dramma dell’intera umanità.

Il critico d’arte Carlo Segala ha lasciato consensi lusinghieri al neo-pittore che quanto prima esporrà nelle gallerie di Verona.

Sandra Zocca, “Dramma espresso senza tempo e precedenti nelle tavole di Sergio Velo”, 1970

Alessandro Mozzambani

Velo è un pittore naif. Carrozziere d’automobili solo per aver spostato i mezzi del suo lavoro quotidiano distogliendoli nel modo e nel fine (cioè non verniciare lamiere d’auto, ma evasioni di vernici su faesiti possibili d’ogni sopruso, violenza formale, incantamento) libera una sua visione primigenia come colmo di desideri negato dalla realtà depositandovi le frustrazioni come una sua e loro vendetta immaginifica…bella. Dopo aver provato un giorno, per il sollecito di chissà quali impulsi segreti casuali dirompenti a sporcare uno spazio senza alcun ordine e necessità coi colori industriali che conosce a fondo, Velo si è trovato tra le mani come uno strano nuovo mestiere (fascinoso questa volta) che poteva proiettarlo come non era mai riuscito dentro di sé, altrettanto lontano come un astronauta, lasciandolo altresì sbalordito confuso, felice, pieno di voglie e libero quanto prigioniero (da allora) delle sue enfasi, delle retoriche novelle di forme: immagini irrazionali più del sogno. Poi a sua operazione inventiva ha smesso d’essere del tutto innocente (e del tutto inconscia) legittimandolo ancor più a naif di oggi, anche perché gli rimase negli occhi la certezza che attraverso la colorazione mimando il suo cognome si ritrovava una vela pronta a navigare, volare e trasportare nella enormità dei sogni. In parte ho menzionato i miei motivi sul carattere naif del pittore, intendo ora ribadirli proprio perché egli non fa casette o alberelli in un certo modo naifistico come prodotti speculari da una decina d’anni per bambinesche versioni primitive nemmeno “innocenti” (dico io) al livello comunicativo di Bolero Film e Grand Hotel. Un conto infatti è la moda, un conto i sogni. O la capacità visionaria di farsi visioni. Velo, scoprendo il suo tema tecnologicamente, ha unito nel fare la sua dose di ingenuità estetica, credendo sempre però di dipingere e non d’essere un generatore di miti privati, e fuori dalle linee rette-storicizzabili della figurazione; in tal modo la sua coscienza si è trasmutata nei mezzi a disposizione., cioè pistole e spruzzatori a pressione, cabina isolata per verniciatura, e smalti vernici sintetici coagulanti ossidanti, che (maliziosamente a disposizione) permettevano innumerevoli precipitazioni colorate nei pascoli abbondanti dell’inverosimile, delle fantascienze, o di un nuovo panorama oggettivo paesaggistico rifatto ex novo per allusioni parzialissime. Le possibili lontane identificazioni linguistiche: informelle, dripping gestuali, etc. non trovano nel caso alcuna giustificazione legittima perché esse non arrivano mai a incidere sulla coscienza espressiva facendo esclusivamente parte della natura esteticamente “selvaggia” di Velo. Proprio per tali motivi il suo potenziale d’immagini trova esclusivo riscontro nel respirare concreto e insieme assurdo delle sue frustrazioni, e della volontà di manifestarle rovesciate per immagini lontanissime dal trauma. Altresì non ha motivo di essere una poetica estetica perché tutto si risolve nella privata emotività gestuale, nel funzionamento razionale delle tecnologie quotidiane per fini irrazionali, e abbastanza sconosciuti malgrado previsioni e volontà di definirli. Paradossalmente Velo si sente infine collettivizzato per la pittura (mentre per Pollock, Wols, etc. essa fu sempre un modo disperato irraggiungibile per uscirne, per risentire il fascino mortale della liberazione sfrenata degli impulsi coscienti: fino all’immortalità di una tale posizione rispetto agli altri, a tal punto da cercare il suicidio in vari modi, per dimenticare o non perdonarsi l’intelligenza di siffatti orgogliosi “romantici desideri”) e collettivizzandoli supera di tanto le delusioni del mestiere di cui sente la rappresentazione esclusiva nelle giustificazioni della sopravvivenza fisica. Ora, però, comincia per lui un diverso modo di vivere, e liberando il suo gruppo di fantasia troverà infiniti ostacoli a questa sua indipendenza umana da parte di una società che l’attornia, al massimo capace di accettarne il prodotto colorato piuttosto che la sua originaria immediatezza, con la meraviglia borghese che neutralizza sterilizzando ogni forma pudica e impudica i suoi possibili turbamenti sistematici. Chiudendosi il ciclo anche Velo avrà la sua angolazione merceologica da controbilanciare con quanto il sistema può negargli da altre parti, che lui potrà barattare e inventariare senza mai perdere in vivacità, e in solitudine. La sua posizione scelta quanto inaspettatamente trovata lo porterà in una nuova insospettata solitudine, assai più complicata ed evidente della precedente dal momento che ha inteso costruirsi una pista di decollo per gli infiniti vagheggiamenti dei solitari. Mischiando con incoscienza solitudine, delusione, gioia di fare e imprevisti vari incatalogabili, il composto sarà dato da tante immagini quanto impossibili saranno le autospiegazioni che il pittore si domanderà e non saprà darsi: come appunto è la vita appena si interroga con furba onestà e spregiudicatezza onesta sul modo nostro di consumarla, goderla, o buttarla come l’involucro indistruttibile nei prodotti del supermarket. Ora Velo si è rotto in rapporto tra lavoro e sue misure economiche, turbandosi avventurosamente in cerca della poesia: misterioso oggetto inesistente come nella scatoletta cinese di “Bella di Giorno”.

Il mio augurio all’uomo più che al pittore è che rimanga naif, che non superi la barriera delle immagini traumatizzate, altrimenti deluderà sé stesso e il suo pubblico cadendo nella impazzita religione dei poveri artisti di oggi, sublimati o sublimanti come le favolose etichette della carne in scatola e come appunto l’appetitoso prodotto gelatinato sempre pronto all’uso.

Alessandro Mozzambani, “Sergio Velo, ovverosia un naif tecnologico”, 1970

Sebastiano Saglimbeni

Le interpretazioni alla pittura di Sergio Velo sono state soprattutto rivolte alla genesi di questa: e si è parlato non restrittivamente con un certo piglio discorsivo sulle “versate” di colori industriali (su superfici predisposte, tele apposta apprestate ed altri mezzi) con l’intervento dell’operatore-animatore che li fa, poi, raggiungere, incontrare, confondere. E vengono così forme informi, il caos, dal quale si osserva l’ordine. Ed anche, nel vorticoso, gravidissimo, discorso sul pittore, di temperamento tardo-romantico, riflesso tutto nella causticità coloristica, una qualche, non del tutto accettabile catalogazione è stata avanzata. E dei confronti, anche. Un raccordo è sempre possibile emetterlo: le tesi di uno comunicano se non eguali del tutto, con quelle di un altro venuto prima. Svevo si trovò ad esempio le teorie di Freud in testa, e non l’aveva letto mai, né mai era stato ammalato perché avesse potuto avere bisogno di psicanalisi.

Nella storia pittorica di Velo due fasi dovranno puntualizzarsi: una risalente agli anni Sessanta, sorta parallela ad alcuni testi poetici d’ordine esercitativo nella loro struttura linguistica e contenutistica. Che si sentono come schegge dell’io compositore. Non rivolte alle cose o al “cosismo”, come direbbero Porti o Raboni, né alla società nei suoi aspetti concreti. Ed era, questa prima fase, appunto quella che veniva dal conflusso dei colori industriali sulla superficie adoperata. Eccitante, tuttavia. Sempre interrogativa, ma soggettivamente comunicativa.

E letture ne sono avvenute. Anche da parte di chi proiettato fuori da questo genere artistico. Coraggioso e semirrazionale; il più delle volte emerso - pare – da un sogno impostore. E vi si potevano estrarre mondi biblici: apocalissi, come sconquassi della terra, maremoti, terremoti. Il caos, dicevo sopra.

La seconda fase, esaurita un po’ (chissà perché) questa scrittura, che s’avviava ad una pura ricerca dagli effetti forti, si annuncia come riordino dell’informalità e bisogno di accostamento a forme che recano al paesaggismo visto con predisposizioni d’animo sempre tempestoso e portato inconsciamente su aree – pare- baltiche. Ma sempre la soggettività è attiva e si concretizza in quelli idilli alla rovescia carichi di esasperazione. Una cosa mi par da dire: riprenderà Velo la prima, più inventiva fase? Oppure, con un colpo di spugna, questa e l’altra si lascerà alle spalle per una introduzione su vie artistiche più avanzate, magari più intellettualistiche?

Ma a conchiusa di questa mi viene anche da indicare che i due mondi di Velo, così come sono, rimangono, nell’ambito della pittura veneta, un volume che non consente ripetitività e si apre, come sopraddetto, ad effetti forti e sempre interrogativi.

 

Sebastiano Saglimbeni, “Sergio Velo prima e dopo, un pittore in evoluzione”, 1977

Milena Giaroli

[…] In questi ed in altri quadri si ritorna alla sensazione espressa sovente in versi dal Leopardi: a prima vista serenità, solo apparente, per approdare all’impeto, al tormento ed infine alla solitudine. Volendo, con la modestia della mia penna, stigmatizzare i passaggi reattivi del mio animo di fronte a quel quadro, che più degli altri mi ha colpita, così mi esprimerei:

Terrazzo a mare,

fiorito di gerani,

lambito dallo sciabordio

dell’acqua salsa,

pigra e sonnolenta.

Ma laggiù,

dove la luna sorge,

il mare si increspa

in viva spumeggiata

e ti dona

perle opalescenti,

fluente, candida,

morbida seta…

…quasi un abito

Per una tenera sposa.

E tu aspetti,

muto ed estatico,

dopo il fragore

dell’onda lontana,

il silenzio…

amico e nemico a un tempo

della tua solitudine.

Una sensazione che prevarica addirittura il tormento, e la solitudine, mi coglie ad uno scorcio di collina (“sempre caro mi fu quest’ermo colle” nell’infinito di Leopardi) con due esili alberi solitari, le cui foglie sembra vogliano polverizzarsi al primo alito di vento: il preludio al nulla assoluto, pertanto, alla disgregazione completa che si dissolve in un pulviscolo grigio. Ed ancora l’evanescenza di quella nevicata, evanescente appunto come la consistenza dei sogni distrutti, degli ideali infranti, evanescenza che troviamo nelle dune immobili, di un altro quadro, rese tali dopo l’infuriare del vento rabbioso sulla sabbia impalpabile: e l’approdo sempre e comunque silenzio e solitudine. Non è facile, indubbiamente, la pittura di Sergio Velo: per capirla è necessario penetrarla e meditarla. Solo allora i suoi valori intrinsechi ti balzano addosso, ti aggrediscono quasi, e ti rendi conto che il motivo del silenzio e della solitudine è il motivo profondamente sofferto, come sofferti sono gli occhi ed il sorriso di Sergio Velo. Dal tripudio della “tavolozza al sole” del caro Sarubbi, si passa al macinato tormento della “solitudo imperante” nella tavolozza di Velo: la natura, comunque, è sempre “sovrana”. Ed è forse per una legge inconscia di attrazione tra i due opposti poli che i pennelli dei due pittori, se pure in modo diverso, hanno determinato in me una ridda di sensazioni delle quali ad essi sono sicuramente grata.

 

Milena Giaroli, “Natura leopardiana nei pennelli di Sergio Velo”, Galleria “Il Quadrifoglio”, Brescia, 1971.

Giorgio Trevisan

Iniziò a lavorare poco più che bambino, entrò in una carrozzeria dove imparò come pochi quel mestiere, divenne padrone di una azienda dove si riparavano Ferrari, Jaguar; Mercedes, otteneva consensi e risultati importanti nel suo lavoro, eppure qualcosa nel suo animo non lo soddisfaceva. C’era sempre qualcosa che lo rodeva interiormente e che non riusciva a placare, così Sergio Velo capì che la sua insoddisfazione aveva bisogno di esprimersi e di pacificarsi con la pittura e con la poesia. Autodidatta, dopo ore e ore di lavoro egli si fermava nella sua officina, si armava di pennelli e di colori e, di getto, con furia faceva colare la vernice sulla tavola o sulla tela, la conduceva negli spazi più inusuali ma anche più sentiti, costruendo paesaggi della natura che sembravano uscire più dalla mente che dall’osservazione della realtà. Per lui dipingere era diventata un’evasione, non un semplice hobby distintivo, era un modo per “andare oltre un quotidiano fatto di costose carrozzerie da raddrizzare, di attrezzi particolari da inventare per poter rimettere a nuovo macchine di lusso”, era l’unica via per cercare una sorta di pacificazione ad una esistenza che gli riservava amarezza e dolori. Sergio Velo dipingeva, componeva paesaggi astratti con ascendenze romantiche, univa colori cupi a squarci di rosso “Ferrari”, interferendo stesure notturne con lampi di giallo, comunicando, attraverso le sue opere, i suoi pensieri e la sua solitudine. Egli continua a parlare della sua vita; come un fiume di parole in piena spiega che la sua salvezza “è riconducibile alla pittura e alla fede in Dio”, ricostruisce alcuni momenti difficili del suo lavoro, i giorni in cui si trovò l’officina sfasciata e che solo dipingendo riuscì a sopravvivere anche psicologicamente. Parla delle sue mostre, di Carlo Segala suo amico e mentore e di Alessandro Mozzambani; dice che avrebbe potuto girare l’Italia e l’Europa, esporre un po’ ovunque ma il suo legame con Verona era inscindibile. Nella sua officina, dopo ore e ore di lavoro, egli si metteva davanti a una tela o a un compensato sui quali faceva calare dei rivoli di colore, li orientava e li conduceva, con una bacchettina appuntita, verso la composizione di “una poesia immaginaria”, di una narrazione lirica per immagini solo emotiva e immediata.

“Mi sembra

che tutto il mondo

mi sia addosso

in mezzo, braccato,

ad un feroce girotondo”

Questi sono alcuni versi prodotti da un uomo che ha sempre dipinto e composto poesie incantate “tra lacrime e sudore, con le mani incallite” e i problemi di un’azienda di medie dimensioni da mandare avanti.

Ora vive in modo molto appartato, non ha smesso di dipingere e nemmeno di scrivere brevi versi, ma ancora, quando è assalito dalla tristezza e dallo sconforto, prende in mano i pennelli, versa il colore sulla superficie e ne estrae opere appartenenti – come scriveva Carlo Segala – “alla più sregolata delle repubbliche: quella della fantasia”

Giorgio Trevisan, “Sergio Velo, la fantasia sulla tela. Una vita appartata tra i pennelli con cui comunica i suoi pensieri”, l’Arena, 1999

Gallerie d'arte

Sergio Velo non è un naif: quel tanto di istintivo e di ingenuo che permane nei dipinti, ora esposti alla galleria “Il Prisma”, non dovrebbe impedire di considerarli come appassionati tentativi di promulgare, rammodernandola, la visione emozionante” di Turner (1775-1851), il famoso paesaggista inglese cui spetta il merito di aver dato vita a uno spazio come “estensione infinita, animata dall’agitarsi di grandi forze cosmiche, sicché le cose vengono coinvolte in vortici d’aria e in turbini di luce e finiscono per essere riassorbite e distrutte nel ritmo del moto universale” (Argan).

Un dipinto come quello intitolato “Tramonto dopo Turner” è una spia aperta sulla ricerca di Velo, dominata da una vena gonfia di tutto il romanticismo che persiste e si esaspera nei surrealisti, rivolta a suscitare meraviglia mediante il procedimento del “frottage”, grazie al quale si provoca “una successione allucinante di immagini opposte e stratificate le une sulle altre”. Immagini che, nel caso di Velo, si formano da colate di colore, ora cupe ora quasi compatte ora screziate e adorne di marezzature ricamate e attraenti. Sotto l’impeto dei marosi neri e dorati, a tratti l’immaginazione del pittore perde la barra e la visione si scinde e quasi deflagra. Ma più spesso la spinta della furia cupa e travolgente ci appare come bloccata d’improvviso in un fitto gioco di ghirigori preziosi e lucenti.

All’esecuzione corsiva e macchinale di “Verso lo spazio” si contrappone la misura nitida del “Temporale nel Lancashire”, che sembra un quadro dipinto da un imprevedibile seguace del vecchio Turner trovatosi quasi per caso nelle oscure piaghe frequentate dai surrealisti, ma non del tutto convinto dei benefici che si possono trarre da un uso immoderato dell’inconscio.

 

G.L.V, “Sergio Velo”, Galleria “il Prisma”, Verona, 1971.

Tra le centinaia di opere emergono “composizioni” gettate, vive, senza condizionamenti, nella ricerca di un attimo di pace, di una risorsa per creare e mantenere un’emozione. Fasci, linee, pennellate più o meno decise, compiono ampi respiri, provocando fervore ed audacia, tranquillità e serenità. Opere dall’aspetto complesso, i quadri di Velo emergono dalla caotica presenza di emulatori, che si dedicano alla mera copia di un mondo che troppo velocemente si modifica, superandoli. Le sembianze sbiadite ed offuscate di alcune opere di Sergio Velo leggono un tremore interiore verso una società che irreversibilmente è mutata, che sfugge di mano, che non può avere un controllo definito. Gli squarci di colore in una composizione scura ed impostata con sfumature tono su tono colpiscono e si protendono verso la consapevolezza di un punto di arrivo. Ognuno, di fronte alle opere di Velo, può riflettere, discutere, cercare o semplicemente osservare. Non esiste una lettura primaria e preordinata nei suoi quadri; è altresì viva la tendenza all’autoanalisi, all’introspezione, per riconoscere dentro di noi uno squarcio che abbiamo cercato invano di chiudere, una lacuna che abbiamo cerato di colmare, un mare che ci sembrava troppo grande da attraversare. Il mare e le ampie distese: forse metafore della vita che ora ha trovato un equilibrio. Il tumulto delle prime opere si è attenuato e l’esasperazione di alcuni tratti pittorici si è affievolita, ma entrambi non sono spenti. Rimangono in attesa, per rivivere sotto un’altra luce. La carica espressiva delle composizioni di Velo è data dall’impulso breve, veloce, dinamico e allo stesso tempo consapevole, di una sensazione che altrimenti andrebbe perduta. Non c’è rigorosa costruzione geometrica, non c’è stereotipo né copia gratuita: la ricerca personale di Velo, spoglia la propria personalità, scindendo tra i molteplici aspetti che fanno parte dell’animo umano, invitandoci alla riflessione.

 

Alessandra Fontana, “Sergio Velo, una vita tra colori ed ombre”, 2006

BIOGRAFIA

Biografia:

 Nato a Vicenza il 14 ottobre 1927 appena fanciullo venni a Verona, dove mio padre lavorava. Ebbi una infanzia dura, triste, per tanti motivi. Ero molto vivace e dove vivevo, in campagna, c’era posto per correre ed arrampicarsi sugli alberi. A dodici anni iniziai a fare il calzolaio e a quattordici le reti dei letti; a quattordici e tre mesi iniziai a svolgere l’attività di carrozziere d’automobili. Mi appassionai molto e imparai bene il mestiere. Venne la guerra e tra un bombardamento e l’altro la sede della carrozzeria cambiò più volte, ripetutamente distrutta dalle bombe. Dopo la guerra cambiai alcuni posti di lavoro: mi cercavano in tanti, ero capace ed appassionato al mio lavoro. Nel frattempo, non avevo mai smesso di svolgere attività sportive, tra cui il calcio, atletica, ginnastica artistica: non ro mai fermo, con mio fratello improvvisammo anche un circo. Rimanere fermo era per me impossibile: dovevo correre, fare, improvvisare. Nel 1949 svolsi il servizio militare tra Pesaro, Treviso, Pordenone e Belluno. Fu un anno in continuo movimento. Giocavo a Calcio come portiere del reggimento e mi dimostravo atleta in ogni occasione: per correre i 400 metri, per il salto in alto, per i 1500 metri; credevo di poter comandare, invece mi misero perfino in carcere, due volte, perché non riuscivo a dire “Signor si!”. Nel 1950 tornai a lavorare; ricevetti una proposta e con 50.000 lire diventai proprietario di qualche attrezzo e di un piccolo spazio quasi diroccato a causa delle bombe. La gente mi portava lavoro, piano piano riuscii a creare una carrozzeria nuova, estremamente moderna: sembrava un sogno! Avevo 28 anni: bravo, stimato, cercato ed invidiato. Era troppo per me. Credevo al sogno realizzato, ma il rapporto con un mondo nuovo, fuori dagli schemi “genuini” del mio passato, non faceva per me. Era forte il piacere, l’orgoglio di essere arrivato da contatti diretti, quasi familiari. Ma attorno a me iniziavano a nascere invidie e gelosie. Per quanto sapessi fare soffrivo a causa della passione, della genuinità dei miei comportamenti, dell’umano nel mio essere, dovendo trattare con tutti e di tutto con la semplicità dell’onesto. Il mondo stava cambiando, e di molto!

Mi trovai male. Non le cercavo, ma le lacrime venivano da sole…

Nella carrozzeria, la sera, prendevo colore, pennelli e provavo a dipingere. Cercavo altri mondi, dei rapporti con il mio Io. Il colore, correndo, volente o meno, m’indicava vie fuori dai temi della giornata, e l’immagine veniva costruita in modo inconscio, trascinandomi in mondi nuovi e diversi, trovando in questo delle soluzioni positive a delle giornate negative. Il mio carattere mi ha sempre portato ad insistere nel cercare “chi io sia”; ne trovai gli indizi negli spazi vuoti del giorno, accostandomi per assurdo, in un piccolo spazio, a trovare il cielo!

Così nacque Velo pittore: usando i colori delle Ferrari, delle Jaguar e di altre vetture (ero diventato carrozziere apprezzato soprattutto per le auto di un certo rilievo) che potrebbero dare orgoglio a molti. Per me erano il pane della giornata e allo stesso tempo fonte della mia tristezza. Usandone i colori per cercare evasioni, per mondi remoti, immaginari, che con fantasia e astrazione completavano la mia quotidianità, pensavo.

Non so mai cosa andrò a fare impugnando il pennello, ma con l’aiuto della immaginazione ho la volontà di esplorare i mondi nuovi nel mio inconscio.

 

Sergio Velo (1927-2017)

DOVE E QUANDO

  • 1971
    Prima mostra personale Galleria “Il Prisma”, via Oberdan, Verona.Presentata dai critici Carlo Segala e Alessandro Mozzambani
    Mostra personale presso l’“Hotel da Duilio”, Caorle, Venezia
  • 1972

    Mostra personale presso la Galleria “Al Faunus”, Piazza Brà, Verona

    Mostra personale presso la Galleria “Quadrifoglio”, Brescia

    Mostra personale presso la Galleria d’arte di Abano Terme, Padova

  • 1974

    Mostra personale presso la Galleria “Volto S. Luca”, Verona
  • 1975

    Mostra personale presso la Galleria Corso Palladio”, Vicenza
    Venne inviato un dipinto di Sergio Velo al museo Guggenheim a Venezia, di cui non si è saputo più nulla
  • 1973-1992

    Galleria personale “Juliette”, via Adigetto 3, Verona
    Dipinti venduti presso la Galleria “Juliette” sono presenti in collezioni private un po’ in tutto il mondo (Cina, Giappone, Olanda, Francia, Spagna, …)

  • Per anni Velo è rimasto in contatto con la famiglia di Gennaro Cascella di Monopoli (BA), nipote del noto pittore. Questi esponeva nel suo showroom di mobili i quadri di Velo.

    Negli anni inviti giunsero, e vennero rifiutati, da Roma, da Napoli (Accademia Rodino, via Chiaia), da Milano (Galleria “Il Baguttino” via Bagutta), da Cremona (mostra su invito).


  • Prima mostra personale Galleria “Il Prisma”, via Oberdan, Verona. Presentata dai critici Carlo Segala e Alessandro Mozzambani
    Mostra personale presso l’“Hotel da Duilio”, Caorle, Venezia
  • 1972

    Mostra personale presso la Galleria “Al Faunus”, Piazza Brà, Verona

    Mostra personale presso la Galleria “Quadrifoglio”, Brescia

    Mostra personale presso la Galleria d’arte di Abano Terme, Padova

  • 1974

    Mostra personale presso la Galleria “Volto S. Luca”, Verona
  • 1975

    Mostra personale presso la Galleria Corso Palladio”, Vicenza
    Venne inviato un dipinto di Sergio Velo al museo Guggenheim a Venezia, di cui non si è saputo più nulla
  • 1973-1992

    Galleria personale “Juliette”, via Adigetto 3, Verona
    Dipinti venduti presso la Galleria “Juliette” sono presenti in collezioni private un po’ in tutto il mondo (Cina, Giappone, Olanda, Francia, Spagna, …)

  • Per anni Velo è rimasto in contatto con la famiglia di Gennaro Cascella di Monopoli (BA), nipote del noto pittore. Questi esponeva nel suo showroom di mobili i quadri di Velo.

    Negli anni inviti giunsero, e vennero rifiutati, da Roma, da Napoli (Accademia Rodino, via Chiaia), da Milano (Galleria “Il Baguttino” via Bagutta), da Cremona (mostra su invito).